Parità di genere, bocciata la Toscana. Ecco il rapporto Irpet

Nella nostra regione gli uomini hanno una probabilità di essere occupati del 18 per cento superiore a quella delle donne
La parità di genere rimane ancora oggi un obiettivo di democrazia a cui tendere: in Toscana, in Italia e in Europa si registrano ancora profonde disparità tra uomini e donne.
E’ ciò che emerge dal report consegnato al consiglio regionale da Irpet, l’Istituto per la programmazione economica della Toscana su iniziativa e proposta della commissione regionale per le pari opportunità presentato al Teatro della compagnia in occasione delle celebrazioni per la festa della donna, che disegna un quadro complesso. I dati più significativi tra quelli raccolti sul divario di genere nella nostra regione costituiranno i punti di riferimento per le iniziative da prendere nell’immediato futuro.
“Con questa ricerca fatta con il supporto di Irpet, abbiamo voluto raccontare qual è la situazione lavorativa delle donne della Toscana e provare insieme a invertire la rotta, in modo che ci siano più diritti per tutte le donne – ha spiegato la presidente della commissione per le pari opportunità, Francesca Basanieri – Il dato importante – ha aggiunto – è che la Toscana è in linea con il dato europeo. Ma il tipo di lavoro definito come segregazione orizzontale, in alcune tipologie di occupazione, come i servizi, il commercio e il turismo, è più marcato. Ed emerge, infine, che il compito di cura dei bambini è ancora completamente demandato alle donne, tanto che molte madri preferiscono l’occupazione part time o addirittura lasciare il lavoro”.
I dati
La commissione europea ha adottato un’ambiziosa strategia per tendere alla parità di genere nel quinquennio 2020-2025 e il governo italiano ha stilato la propria strategia nazionale, inserita nell’ambito di attuazione del Pnrr e nella riforma del Family act: ogni Regione è chiamata a fare la propria parte. Per delineare lo sfondo, il documento nazionale fa riferimento al Gender equality index1, stilato ogni anno dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), che vede l’Italia con un punteggio al di sotto della media europea e ben lontana dai primi tre paesi della classifica, che sono Svezia, Danimarca e Francia.
Gli ambiti di intervento della strategia nazionale sono quindi lavoro, reddito, competenze, tempo e potere. L’Italia è un paese segnato profondamente dalle differenze territoriali e gli indici calcolati a livello nazionale scontano queste forti disuguaglianze, basandosi su valori medi che non rispecchiano la realtà. Se calcoliamo un indice di disparità regionale, l’Italia è in cima alla classifica dell’Unione europea insieme alla Turchia.
La Toscana si colloca con le regioni del centro nord, al di sopra della media nazionale, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Permangono invece significative differenze strutturali al suo interno, che incidono sui redditi e sulla capacità di accedere alle posizioni di potere e sono – in qualche misura – effetto di una diversa distribuzione delle competenze, da una parte, e di una mancata condivisione del lavoro di cura all’interno delle coppie, dall’altra.
Dall’agosto 2021 l’Italia ha, per la prima volta, una strategia nazionale per la parità di genere, che definisce un piano di lungo periodo per combattere questo tipo di disuguaglianza, identificando le priorità di intervento (lavoro, reddito, competenze, tempo, potere), i relativi indicatori e i target, specifici e misurabili, da raggiungere, così da guidare l’azione di governo e monitorare l’efficacia degli interventi. Molte studiose di genere sono convinte che si tratti di un passaggio importante per la storia del nostro paese, tale da poter segnare finalmente l’uscita dalle vaghe enunciazioni di principio e l’assunzione da parte del governo di un impegno preciso, quantificato e verificabile. Al tempo stesso, si rileva che il piano non ha avuto finora una grande rilevanza nel dibattito pubblico e scarseggiano ad oggi le informazioni relative al percorso previsto per la sua implementazione.
La media europea dei tassi di attività delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni sfiora, nel 2019, il 73 per cento, mentre quella italiana risulta inferiore di oltre 10 punti. Tutte le regioni italiane, tranne l’Emilia Romagna, la Valle d’Aosta e la provincia autonoma di Bolzano, si collocano al di sotto del dato dell’Europa a 28 paesi, ma in un intervallo molto ampio, che va dal 73 al 41 per cento. La Toscana risulta molto vicina alla media europea, anche se lievemente al di sotto. I dati certificano che le basse performance dell’Italia, che ci accomunano più ai paesi ultimi arrivati dell’Unione europea piuttosto che agli stati fondatori, dipendono dal forte divario nord/sud.
Il tasso di attività, ossia la volontà di accesso delle donne al mercato del lavoro, è il primo dato da considerare, perché esso ha effetti a catena sui tassi di occupazione e disoccupazione. Maggiore è la quota di donne che rimane fuori dal mercato del lavoro, più alta risulta anche quella delle donne disoccupate, in una sorta di circolo vizioso che aumenta lo scoraggiamento e la sfiducia nei confronti della possibilità di trovare un’occupazione dignitosa. Agire con forza sull’attivazione della componente femminile potrebbe avere un effetto trascinamento anche sull’occupazione più in generale, diminuendo la percentuale delle disoccupate.
Le politiche per la parità di genere si dovrebbero concentrare sulle regioni del sud Italia, considerato che, nel confronto europeo, sono proprio gli stati con maggiori disparità interne a soffrire di più sul piano dell’occupazione femminile. Gli stati con le più alte quote di occupazione femminile sono invece quelli in cui le disparità regionali risultano più basse. Intervenire su queste dinamiche significherebbe dare una spinta dal basso a tutte le regioni italiane, creando un mercato del lavoro nazionale più amico delle donne.
Quanto ai divari col genere maschile, tutte le regioni italiane – fatta eccezione per la Valle d’Aosta – si collocano al di sopra della media europea. In Toscana, gli uomini hanno una probabilità di essere occupati del 18 per cento superiore a quella delle donne e tale quota arriva a raddoppiare nelle regioni meridionali. Nelle fasce d’età dai 25 ai 54 anni, la Toscana si avvicina alla media europea più dell’Italia. Permane comunque una distanza di genere evidente, che cresce se prendiamo in considerazione i paesi scandinavi, ma anche Germania e Francia, testimoniando le difficoltà strutturali del nostro paese, marcate non solo dall’effetto mezzogiorno, ma anche dal gap che si mantiene significativo sia nell’accesso al mercato del lavoro che nel mantenimento dell’occupazione.
Senza distinguere per fasce d’età e per titolo di studio, lo scarto tra uomini e donne è per la nostra regione in linea con quello del centro nord e meno lontano dalla media europea, sebbene risulti comunque sempre maggiore, sia nel caso della partecipazione al mercato (tassi di attività) del lavoro che dell’occupazione vera e propria (tassi di occupazione). Titolo di studio e classi d’età incidono significativamente sulla propensione ad attivarsi e trovare lavoro, tendendo a diversificare il dato sulle disuguaglianze di genere. Come è noto, più alto è il livello di istruzione, più diminuisce la distanza tra uomini e donne nei tassi di attività e di occupazione.
Per quanto concerne il differenziale salariale, esso risulta in ogni caso a svantaggio della componente femminile, che percepisce sempre mediamente un reddito più basso, in un range che va dal 35 al 6 per cento rispetto agli uomini. Si osserva che al crescere del differenziale occupazionale a vantaggio delle donne (maggiore femminilizzazione dei settori) cresce anche il gap salariale a loro svantaggio. Viceversa, i settori in cui i salari femminili si avvicinano di più a quelli maschili sono quelli in cui le donne risultano una minoranza: i trasporti e la logistica, le costruzioni e le forze armate.
Nelle attività economiche da sempre popolate dalle donne, invece, alla bassa presenza maschile corrisponde una loro migliore posizione occupazionale, che va a incrementare le retribuzioni medie: per esempio i dirigenti nelle scuole, i primari nella sanità, gli imprenditori o i manager nei servizi. C’è poi un’ulteriore valutazione che riguarda l’entità dei salari medi. In generale, le occupate presentano un reddito medio di circa 19mila euro contro gli oltre 24mila degli occupati. Tale valore è il risultato di una concentrazione delle donne nei settori in cui i redditi sono più bassi.
Tra i settori femminili meglio retribuiti troviamo sanità e pubblica amministrazione, in cui si accede tramite concorso e sono richieste specifiche competenze. In entrambi i casi, comunque, il reddito medio maschile è sempre più alto di quello femminile. Si conferma, inoltre, la riflessione che i redditi femminili più elevati prevalgono nelle professioni meno popolate dalle donne. Per quanto riguarda il tipo di contratti, si osserva un allineamento verso quote di precarietà elevate anche per gli uomini, che si avvicinano gradualmente ai livelli più alti delle donne. Se nel 2004 le occupate con contratto a tempo determinato o di collaborazione rappresentavano il 15 per cento contro l’8 per cento della componente maschile, nel corso degli anni la condizione degli uomini nel mercato del lavoro è peggiorata, mostrando una convergenza, che tende ad accomunare soprattutto le generazioni più giovani.
Il part time rimane invece un’esclusiva femminile, soprattutto laddove viene concesso e non imposto. Negli ultimi anni è infatti cresciuta la componente involontaria, che riguarda anche gli occupati, mentre quella volontaria rimane prerogativa delle donne. Nel complesso la quota di donne con contratto part time passa dal 25,9 per cento del 2004 al 32,2 per cento del 2020. In questi decenni, inoltre, nonostante l’incremento osservato anche tra gli uomini, la forbice di genere tende ad aumentare, arrivando ai 24 punti percentuali.
In una prospettiva di genere, gli effetti di un contratto part time sono molteplici: minore retribuzione mensile, minore accumulo di contributi e quindi di pensione alla fine della vita lavorativa. Inoltre, chi cerca occupazione nell’ottica del part time si indirizzerà verso posizioni lavorative che lo permettano, restringendo il campo dei lavori possibili e limitando anche le proprie ambizioni di carriera, considerando anche che il mondo del lavoro italiano è ancora profondamente segnato dall’idea della presenza costante quale principale indicatore di impegno professionale da premiare. Anche nei settori dove la presenza femminile è maggioritaria, la probabilità di raggiungere posizioni di responsabilità rimane inferiore a quella di un collega maschio: basti l’esempio di tre ambiti lavorativi pubblici come la scuola, l’università e la sanità. Al crescere del prestigio, della responsabilità e dello stipendio, il peso delle donne va diminuendo, seppure la loro presenza numerica sia nei fatti predominante.
Un maggiore ventaglio di scelta nelle preferenze professionali femminili potrebbe aiutare ad aumentare i redditi medi. La concentrazione femminile nei servizi e in particolare in quelli legati alla cura (istruzione, sanità, servizi sociali in primis) non può tuttavia essere cancellata in breve tempo. Queste attività economiche, infatti, non solo traspongono in ambito occupazionale le mansioni per lungo tempo considerate naturali per la donna, ma sono anche quelle meno retribuite e meno riconosciute dalla nostra società. Riformare il sistema dei servizi alla persona, migliorandone le condizioni di lavoro, innalzando i redditi degli occupati e richiedendo maggiori competenze e formazione, oltre a dare una risposta migliore ai bisogni, avrebbe un effetto immediato sul tenore di vita delle donne e potrebbe incentivare una più numerosa presenza maschile nei settori economici più femminilizzati, tale da riequilibrare la presenza di genere.
Rimane il nodo della cosiddetta conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Le donne non accedono al mercato del lavoro o, quando sono occupate, lavorano e guadagnano in media meno degli uomini perché rimangono ad oggi le principali depositarie del lavoro di assistenza e cura non retribuito all’interno della famiglia. La cura dei figli costituisce indubbiamente un ostacolo per la donna nel mercato del lavoro. Le madri presentano i tassi di occupazione più bassi, rispetto alle donne senza figli e, naturalmente, agli uomini, siano essi padri o no. Si osserva anzi, che nel rispetto di una divisione di genere del lavoro retribuito e di cura tradizionale, la quota di occupati padri è maggiore anche rispetto a quella di occupati senza figli, per colmare probabilmente la minore disponibilità al lavoro delle madri.
Le donne occupate tendono inoltre a sommare l’impegno professionale a quello familiare così che la conciliazione si traduce in un carico di lavoro su entrambi i fronti, con il risultato di erodere la quantità di tempo libero delle donne e indurre a rinunciare a una carriera o a una maggiore soddisfazione lavorativa. I progressi compiuti negli ultimi anni sono il risultato di varie trasformazioni: da una parte è senz’altro aumentato il contributo degli uomini al lavoro di cura e assistenza alla persona non retribuito, mentre si è ridotto quello delle donne, in particolare delle occupate, grazie anche al maggiore utilizzo di servizi pubblici e privati. L’organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) nel rapporto mondiale intitolato Care work and care jobs for the future of decent work, calcola però che, nonostante i passi avanti, in Italia, a questa velocità l’uguaglianza di genere nel lavoro non retribuito di assistenza e cura potrà realizzarsi solo nel 2066. Se ci focalizziamo sul contesto toscano, non si notano grandi differenze rispetto all’Italia.
Considerando le coppie con figli in cui entrambi i genitori lavorano, emerge un ruolo maschile ancora quasi del tutto orientato all’ottenimento di un reddito e, al tempo stesso, un ruolo femminile che non è più soltanto dedito alla famiglia, ma pienamente attivo nel mercato del lavoro (più di 30 ore settimanali), cosicché l’impegno professionale si aggiunge, in pratica, a quello di cura della casa e della famiglia. Le dimissioni volontarie per maternità sono ulteriormente cresciute e, per tre donne su quattro, la motivazione alla base delle dimissioni è l’impossibilità di conciliazione del lavoro con la cura dei figli. Fino ad oggi la politica della conciliazione ha solo in parte favorito l’occupazione femminile, con forti disuguaglianze all’interno del mondo delle donne, legate al loro grado di istruzione, alle risorse personali e familiari e alle motivazioni personali. Per ridistribuire più equamente il carico di cura serve una diversa organizzazione dei tempi e degli orari del lavoro retribuito di uomini e donne, da ridiscutere in modo decisivo, nell’ottica di una società realmente improntata alla parità di genere.