Licenziato in tronco perché non firma l’autocertificazione Covid: risarcito ma non riottiene il posto

Il singolare caso di un ex addetto alla sicurezza di un’azienda quando ancora non erano scattate norme e restrizioni contro la pandemia: la Corte d’Appello ha ribaltato in parte la sentenza di primo grado ma non ha reintegrato il lavoratore
Una sentenza della Corte d’Appello ripercorre la storia personale delle parti in causa ma anche il periodo più incerto e drammatico dal dopoguerra ad oggi in Italia, e successivamente in tutto il mondo: gli inizi della pandemia del coronavirus. In quel delicatissimo momento storico che nessuno dimenticherà alcuni giorni sono stati indubbiamente molto più caotici di altri perché almeno all’inizio non si capiva bene cosa fare e come comportarsi. In quel frangente, quando ancora non vi erano regole (e soprattutto limitazioni) certe, un addetto alla sicurezza di notte in un’azienda viene licenziato in tronco perché si rifiuta di firmare un’autocertificazione quando questo documento non era ancora obbligatorio.
Il primo dpcm infatti è del 23 febbraio, precedente alla vicenda oggetto del procedimento giudiziario, e in quei mesi più volte il governo ha dovuto aggiustare il tiro sulle regole da seguire per evitare la diffusione del contagio. Sono stati ben 19 i dpcm del Governo, una media di due al mese, concentrati soprattutto nel primo periodo, quando lo tsunami che ha travolto la Lombardia, il nord Italia e in misura minore il resto del Paese ha costretto l’esecutivo a fronteggiare una crescita impetuosa del Covid che poi è esploso letteralmente in tutto il pianeta. Ma il 20 febbraio del 2020 un dipendente di Lucca di una società multi servizi che si occupa anche di sicurezza, armata e non, viene invitato dalla sua azienda a svolgere turni notturni in provincia di Genova in un’industria locale. Il lavoratore originario della Lucchesia accetta anche perché in quel settore (sicurezza privata) i turni di notte e al di fuori della provincia di residenza sono retribuiti maggiormente rispetto ai turni “classici” e nella propria città d’origine e siccome si parla di paghe già al centro di mille polemiche in quanto a retribuzione oraria l’uomo che lavora da 13 anni nel settore decide di accettare ben volentieri. Ma appena arrivato sul posto di lavoro inizia per lui un periodo bruttissimo in un contesto storico dove la pandemia era alle porte.
L’uomo infatti si rifiuta di compilare integralmente un documento di autocertificazione che gli presenta la ditta che doveva sorvegliare. La parte con tutti i suoi dati sensibili non la compila, limitandosi a autocertificare di non avere sintomi influenzali, di non essere stato nei Comuni a rischio (dell’epoca) e non essere entrato in contatto con persone che avevano contratto il Covid. Ma questo non basta: la ditta infatti a quel punto gli dice chiaramente che se non compila e firma tutti i campi di quel documento di autocertificazione deve lasciare immediatamente i locali e andare via. L’uomo continua a rifiutarsi di farlo e a quel punto riceve anche una telefonata del suo datore di lavoro che gli ripete la stessa cosa che gli avevano appena detto in ditta.
Ma lui non cede e dopo varie discussioni va via. Ma il 31 marzo riceve l’amare sorpresa, e stavolta in pieno lockdown: la sua azienda lo licenzia. L’uomo prova a spiegare le sue ragioni ma niente. Disperato si rivolge a un legale e impugna il licenziamento in tribunale a Genova, competente per territorio, ma anche i giudici gli danno torto. A quel punto decide di appellare la sentenza di primo grado sempre più convinto dell sue ragioni e nei giorni scorsi finalmente la sentenza favorevole. Il 30 settembre scorso, infatti, i giudici della corte d’appello genovese dichiarano illegittimo il licenziamento, non gli concedono la reintegra sul posto di lavoro come aveva richiesto ma ben 15 mensilità di risarcimento più il tfr. Una sentenza molto importante per tutti i casi simili. I giudici d’appello infatti molto salomonicamente hanno contestualizzato l’intera vicenda. In quei giorni anche se ormai quotidianamente si sentiva parlare solo di Covid nessuno sapeva bene cosa fare e come fare. Parliamo infatti dei giorni dal 19 febbraio all’8 marzo. I protocolli d’azione non erano stati ancora fissati in maniera chiara e vigeva “un fai da te” che no aveva basi giuridiche certe. Pur riconoscendo la “disobbedienza” dell’uomo agli ordini ricevuti via telefono dal suo datore di lavoro i giudici di secondo grado hanno ritenuto sproporzionato il provvedimento di licenziamento riconoscendo all’uomo “mille attenuanti”.
Si legge infatti in sentenza: “Un contesto in qui giorni confusi in cui tutti si sono trovati, a loro volta, ad affrontare una realtà sconosciuta e che ha creato un oggettivo sconvolgimento nelle abitudini di vita di tutti e che ha giustamente portato a privilegiare la primaria necessità di tutela della salute, messa, oggettivamente, così a grave rischio, rispetto ad altre esigenze, quali la riservatezza. Ma nessuno sapeva bene cosa fare in quei giorni. In effetti, valutando da un lato, a favore del lavoratore, la sua anzianità, tredici anni quindi di una certa rilevanza, e la realtà imprenditoriale della società reclamata, non di poco conto, ma dall’altro, a sfavore del lavoratore, il comportamento dello stesso, anche nei limiti di gravità individuati da questa Corte, in ogni caso trattandosi di un comportamento rilevante disciplinarmente, per quanto sicuramente non sanzionabile con un licenziamento, questa Corte ritiene equa l’individuazione di un’indennità risarcitoria di quindici mensilità”. Il caso è risolto.