
Possiamo scegliere di pensare prima di parlare, scegliere cosa dire, perché dirlo e come dirlo
Ho perso il filo nasce dall’esigenza di dare un nuovo significato alle parole. Quello che diciamo non sempre ci rappresenta, non siamo più abituato a comprenderne il valore intrinseco.
Voglio ripartire da un giornalismo pensato e distillato con la precisione dell’alchimista. Voglio un’idea dietro le parole, voglio il cuore dietro al testo, voglio un giornalismo leale che faccia pensare, che non offra risposte preconfezionate ma che stimoli la ricerca della verità che ognuno porta con sé.
Ho perso il filo di quelle parole che sanno di quotidiano, che evocano, che alludono, che non siano sfacciate. C’è bisogno di respirare il silenzio, c’è bisogno di tornare alla sacralità delle parole a cui non siamo più abituati.
Ho perso il filo… E riparto da me
Tas
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Un bel tacer non fu mai scritto.
Me lo diceva sempre mia nonna, e mia madre aggiungeva: “Se non sai cosa dire, allora stai zitta”. Grandi insegnamenti che emergono dal passato e che oggi più che mai, sento che dovrebbero essere rispolverati. Non solo: compresi, imparati, introiettati e distillati per offrire un futuro migliore a noi stessi e a chi verrà.
Il silenzio non fa notizia, il silenzio non esiste, il vuoto non è mai taciuto: in televisione, in radio, in auto, sul motorino, il rumore e le parole ci inondano e ci invadono senza che ce ne rendiamo più conto. Siamo inquinati da parole senza senso, da circonlocuzioni, ripetizioni, panegirici, retorica, frasi fatte, mai responsabili di ciò che diciamo. La superficialità di colmare i vuoti con parole, parole, parole, ogni giorno in ogni istante. Tutti esperti di tutto dobbiamo commentare tutto. Bisogna avere tutti un’opinione mai nuova di zecca, e se questa poi, si addice al sentire comune, a quello che “va di moda”, allora tanto meglio. Esistiamo solo se “ci siamo” sui social, se commentiamo, se clicchiamo, se mettiamo tanti “pollici-in-su”, se sottolineiamo la retorica altrui confermando che questa è una buona retorica anche per noi. Senza capire, senza valutare ragioni e reazioni, senza mai mettere in conto le conseguenze.
Non soppesiamo più le parole, non ne conosciamo il significato e nemmeno l’etimologia, non controlliamo le fonti, non sappiamo se una citazione è fedele, se una traduzione è corretta, non sappiamo cosa stiamo dicendo per il 90% dei casi.
Tanto basta parlare.
Invece si potrebbe scegliere il silenzio. Stare in silenzio, scegliere di pensare prima di parlare, scegliere cosa dire, perché dirlo e come dirlo. Possiamo scegliere. Possiamo offrire ai nostri figli il dono dello spazio di un silenzio. E restare a guardare, vedere, sentire cosa emerge da questo nuovo e ritrovato silenzio. Capire.
Le parole sono un agito. Le parole disegnano e concretizzano il nostro futuro. Giorno dopo giorno, parola dopo parola. Le parole creano la nostra realtà. Dicono di noi. Le parole hanno un valore e un senso, non si può dire tutto e il contrario di tutto perché…tanto, solo solo parole. Le parole contano, pesano, feriscono, uccidono. Mettono fine e raccontano l’inizio, parlano di noi, di chi siamo, di chi siamo stati, ci ricordano le nostre radici, avvicinano le persone o le allontanano per sempre. Se dici ti amo, voglio stare con te produce un effetto. Se dici basta è finita, ne produce un altro. Ti licenzio, ti odio, non farti più vedere, ho bisogno di te, mi sei mancata, ti ricordi? Vediamoci per una pizza…tutte queste parole compiono e si trasformano in un agito. Ogni singola parola ha in sé un potenziale. La nostra intenzione. E tanto è più potente la nostra intenzione tanto più forti saranno le parole, tanto più intense le emozioni e le reazioni che scateneranno.
Il mondo che guardo non mi rappresenta, non racconta niente di me. E tu? Ti sei mai chiesto come lo vuoi veramente raccontare questo mondo? Di quali parole vorresti riempirlo?
E se un bel tacer non fu mai scritto, oggi, vi regalo il mio.